14 novembre 2012

"La rapa" di Luciano Luciani





Un’ingiusta reputazione

Davvero non è facile spiegare perché da sempre un’aura di rusticale opacità avvolga la rapa. Ovvero la Brassica campestris, pianta della importante famiglia delle Brassicacee che allinea sulle nostre tavole non pochi ortaggi imprescindibili per una gustosa e sana alimentazione: cavolfiori, cavoli, ravanelli, rape… Ed è su quest’ultima umile e generosa figlia dei campi, coltivata da millenni per le sue radici carnose e largamente impiegata nella nutrizione umana e animale, che si è esercitata la fantasia, spesso malevola, degli stessi beneficati. Sarà che la rapa nasce dalla terra e nella terra, saranno le sue forme sgraziate e grottesche o che nel corso dei secoli si è andata connotando come cibo per gente povera e bestie, tant’ è che la rapa ha visto crescere attorno a sé una fama di ottusità e dabbenaggine che non accenna a estinguersi. Ancora ai nostri giorni, infatti, annoveriamo il diffusissimo epiteto “testa di rapa” che non è certo percepito come un complimento e non si dimentichi, poi, il modo di dire “cavare il sangue da una rapa” per sottolineare l’inutilità a impegnarsi in una relazione con una persona ritenuta inadeguata o in un’attività destinate, l’una e l’altra, a rimanere improduttive, sprecando tempo e fatica. La nostra Brassica campestris, insomma, ha sofferto e soffre di una reputazione tanto bassa e volgare quanto immeritata, ennesima manifestazione dell’ingratitudine degli uomini.

Uomini e rape

Originaria dell’Asia sudoccidentale, la rapa era nota a quelle popolazioni nomadi che se ne cibavano e ne utilizzavano le foglie come foraggio per i cavalli. Apprezzata da Greci e Romani per le sue virtù salutari, adattabile a tutti i tipi di terreno purché sufficientemente umido, fu estesamente coltivata durante il Medioevo in tutta Europa, occupando, per secoli, nell’alimentazione umana il posto che, dopo la scoperta dell’America, sarebbe stato della patata. Senza particolari esigenze climatiche, con un ciclo biologico piuttosto rapido, di facile conservazione, si è imposta alla coscienza collettiva come la regina delle radici commestibili e l’uomo europeo si è largamente nutrito della sua polpa bianca, gialla o rosata, dal vago aroma di noce, cruda o cuocendola al forno o sotto la cenere, elaborando con essa i più vari tipi di zuppa o ragù, l’antico rapulatum..

Il tempo delle rape

Le rapa da utilizzare come scorta invernale deve essere seminata tra la seconda metà di giugno e settembre, da sola oppure insieme a miglio, avena, granturco, grano saraceno, trifoglio, fieno greco e altre piante da foraggio. “Le rape”, scrive Antonio Mazzarosa, un aristocratico lucchese dell’Ottocento che pensava italiano, attento osservatore delle pratiche agricole della sua terra, “si svelgono alla metà di novembre, e si pongono fitte fitte in linea sugli orli del campo convenientemente rincalzate di terra; ove continuano a vegetare, e servono alla famiglia per il broccolo, e alle bestie per la rapa ridotta in minuti pezzi e mescolata con la paglia”. Non si dimentichi, dunque, il proverbio contadino per cui
Tutto a suo tempo
e rape in Avvento
Non oltre i primi dieci giorni dell’ultimo mese dell’anno, infatti, le rape invernali andranno estratte dal terreno e avviate alla conservazione che avverrà in scatole di sabbia o terra asciutta.
Anche per il poeta latino di origine iberica Marco Valerio Marziale (40 – 102) le rape raccolte a ridosso del solstizio d’inverno sono talmente buone che le mangia volentieri nientemeno che Romolo, leggendario fondatore e primo re di Roma:
Haec tibi brumali gaudentia frigore rapa
quae damus, in caelo Romulus esse solet
(eccoti le rape che si sono godute il freddo brumale
cibo abituale di Romolo lassù in cielo).
Xenia, Liber XIII, XVI

Tra le rape da inverno vanno ricordate alcune varietà particolarmente apprezzate dai consumatori: la “rapa precocissima d’Olanda” e la “rapa di Norfolk”.
La rapa estiva, destinata a un consumo immediato, si semina invece a partire da marzo e si raccoglie prima che le radici ingrossino troppo caricandosi di cellulosa e diventando così poco digeribili. Quando? Ce lo indicano due proverbi:
Se vuoi la buona rapa
per Santa Maria (15 agosto) sia nata

oppure il toscano
Accidenti a quella rapa
se d’agosto ‘un è nnata
I tipi estivi più apprezzati? La “rapa bianca piatta di Milano” e la “rapa bianca lodigiana”.
Oggi, nel nostro Paese, la rapa si coltiva soprattutto nel nord – Italia e tra le province più “vocate” a tale coltura merita di essere ricordata quella di Cuneo; non disprezzabile, però, la produzione toscana e campana. All’estero spiccano alcune aree francesi, i Paesi Bassi e la Scozia.

Vitamine e minerali. Luci e ombre

Poco stimata sul piano nutrizionale il nostro ortaggio ha, invece, recentemente proprio su questo terreno conquistato parecchi crediti . Risulta, infatti, ricco di vitamina B6 e C e abbonda di sali minerali quali il calcio, il fosforo, il magnesio, il potassio. Al punto che la Scuola medica salernitana (XI–XII secolo) ne rilevava le proprietà diuretiche ed emollienti, depurative e rinfrescanti utili nella cura delle cistiti, gotta, litiasi, delle malattie della pelle e, mescolata con grappa e miele, dell’apparato respiratorio. Più problematico intorno ai benefici della rapa è stato Castore Durante da Gualdo (1529-1590), umanista, archiatra del terribile papa Sisto V e autore del prezioso Tesoro della sanità, breviario cinquecentesco della salute e della vita quotidiana, uno tra i primi esempi di letteratura divulgativa di argomento igienico – sanitario. Per il medico umbro il simpatico ortaggio “Genera ventosità e aquosità nelle vene, e opilazione nei pori. È di tarda digestione, e talora mordica il ventre e lo fa gonfiare, riscalda le reni: cruda è nemica allo stomaco; arrostite, e acconcie con aceto in insalata eccitano l’appetito”. Insomma, per il volgarizzatore controriformista la rapa è più ombre che luci.
Un atteggiamento svalutativo nei confronti della nostra brassicacea ribadito anche da un proverbio di area toscano/lucchese:
Disse Cristo agli apostoli suoi
non mangiate rape ch’è cibo da buoi
Naturaliter insipida, scipita, sciocca la rapa, che raccoglie pure le critiche della secolare saggezza del popolo romano:
Chi cià er pepe lo mette a le rape,
e chi nun ce l’ha le magna sciape

La rapa nel canto popolare

Un proverbio che, a leggerlo bene, lascia trapelare non solo un’opinione negativa sulla nostra radice edibile, ma ripropone il tema dell’eterno fatalismo della plebe capitolina non intaccato neppure dalle promesse di libertà e giustizia della Rivoluzione francese. Anzi! Nei versi che seguono, il cantastorie romano Camillo Fiorentini detto Cacarone utilizza anche la rapa e il suo “fiore” per ribadire l’astio antifrancese e il sentimento filo papalino degli abitanti della Città eterna:
Fior de carote,
oh, state zitta, mamma, e nun piagnete
che Francia ce le vò le cortellate.
Fiore de rapa,
magna l’ajo, francese, schiatta e crepa,
che qui se more pe’ difenne er papa.

Spostiamoci in avanti di quasi un secolo, verso nord. Siamo nella Milano di fine Ottocento, la città più ricca d’Italia che si accinge a raggiungere e superare i 300mila abitanti. Proprio qui, legioni di fanciulli, donne, anziani, malati, disoccupati, senza casa conoscono quotidianamente i morsi della fame… Una filantropa, precorritrice del moderno welfare, Alessandrina Ravizza (1846-1915), in grande solitudine, fondò allora la Cucina per gli ammalati poveri: un vasto locale disadorno situato in via Anfiteatro, un luogo generalmente considerato mal frequentato e insicuro dalla Milano perbenista. Magre le risorse economiche, grande l’entusiasmo, eccellente la stima che la Ravizza riscuoteva presso i piccoli negozianti al dettaglio che fornirono a prezzi bassissimi le loro merci e fecero addirittura credito. Poi, soccorsero la sua inesauribile creatività, il suo straordinario fervore, la capacità di commuovere e coinvolgere attraverso serate musicali e teatrali, mostre, conferenze finalizzate alla raccolta di fondi. Imitata da altri enti e associazioni e, più tardi, istituita anche dallo stesso Comune di Milano, la Cucina rappresentò l’ennesimo miracolo socio – assistenziale di Alessandrina che, dalla ingenua gratitudine del proletariato milanese si vide innalzata al rango di contessa, la “Contessa del brodo”.
Anche qui, però, non mancarono, sempre provenienti dal mondo popolare, voci di dissenso e di critica che, comunque, testimoniano quanto quella sua iniziativa fosse entrata nel profondo della vita quotidiana dei milanesi poveri e poverissimi. Così recita, infatti, la prima strofa di una canzone d’osteria di fine ‘800:

A la mensa collettiva a gh’è el mangià che stracca
se va denter con la forza e se vègn foeura con la fiacca
………………………………………………………………..
quatter rav in insalada fettin ben ben tajaa
merluzz che rifilen el campana ‘me on dannàa
(il merluzzo che ti rifilano puzza da morire)

Le rav, le rape, diventano così, nell’immaginario simbolico popolare, un’unità di misura della miseria e della fame.

Rape di carta

Sì, nelle campagne del vecchio continente si sono mangiate tante, tante rape e per generazioni! E non sono poche le tracce di questa consuetudine alimentare rimaste nella letteratura. E se lo scrittore francese, Francois Rabelais (1494–1553), con più di una punta di disprezzo, definiva “masticarape” gli agricoltori del Limousin nel Plateau Central della Francia, dall’Orlandino di  Teofilo Folengo veniamo a sapere che mangiarape era epiteto assegnato a tutti i Lombardi, senza dimenticare che si trattava d’indicazione geografica larga al punto da abbracciare l’intera pianura Padana: "..Pur saper dè' ch'io son di Lombardia / e ch'in mangiar le rape ho del restio.. ..e questo voglio ch'a color sia detto / che chiaman: "lombarduzzo mangia rape"..." Un appellativo resistente, almeno sino alla fine del XVII secolo come riporta il Tasso napoletano di Gabriele Fasano, versione in dialetto partenopeo della Gerusalemme liberata. Qui troviamo l’elenco dei popoli d’Italia definiti in base alle loro abitudini alimentari: “mangiarape” i lombardi; “mazzamarroni” gli abitanti dell’Appennino tosco-emiliano; “mangiafoglie” i cremonesi; “pane unto” gli abruzzesi; “cacafagioli” i fiorentini; “cacafoglie” o “mangiafoglie” i napoletani…
Ludovico Ariosto (1474–1533), in una sua satira, la terza, tende piuttosto a valorizzare il carattere domestico ma affidabile, mediocre ma sicuro della nostra radice:

Chi brama onor di sprone e di capello
serva re, duca, cardinale o papa,
io no, che poco curo questo e quello.
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,
e mondo, e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre
come di seta o d’oro, ben mi corco.

Modeste qualità quelle della rapa, ben ribadite mezzo secolo più tardi da Giulio Cesare Croce (1550-1609), che nel suo celeberrimo Le sottilissime astuzie di Bertoldo fa morire il suo causidico eroe contadino
con aspri duoli
 Per non poter mangiar rape e fagiuoli.

E nel suo testamento morale Bertoldo ribadisce che

Chi è uso alla rapa non vada ai pasticci

Insomma, i due letterati emiliani sembrano rielaborare l’antico proverbio per il quale:
Meglio una rapa in casa mia
che un cappone in quella
di chicchessia
Della serie no place like home. Ma non sempre l’apprezzamento per la rapa era stato così cordiale. In proposito le cronache riportano che nel 1305 nel corso di una delle numerose guerre con i vicini marchesi del Monferrato, duemila fanti astigiani entrati a Pontestura, non trovando da mettere sotto i denti altro che rape, riversarono tutta la loro rabbia sul proprio comandante ricoprendolo di ogni sorta di epiteti. E gli andò pure bene…

Rape da fiaba

E poi ci sono le fiabe… In questo particolarissimo genere narrativo, le rape diventano gigantesche e contribuiscono a punire i furbastri e gli avidi, aiutando a ristabilire un minimo di giustizia sociale. Così avviene nella fiaba dei fratelli Grimm La rapa, dove un contadino povero offre il suo ciclopico ortaggio al re e ne viene ricompensato con denaro, terre, oro e armenti, mentre al fratello ricco che, invidioso della fortuna del contadino, aveva a sua volta portato ogni sorta di regalie sperando in una ricompensa ancora più grande, tocca come bene prezioso proprio l’enorme rapa.
In una celeberrima fiaba popolare russa intitolata La rapa gigante a due vecchi contadini risulta impossibile sradicare una colossale rapa cresciuta inopinatamente nel loro orto. Chiedono allora l’aiuto della giovane nipote. Niente, quel maledetto ortaggio ipertrofico ed extralarge non si lascia svellere. Né le cose migliorano con l’intervento del cane di casa che chiama in soccorso il gatto della famiglia… Solo, però, il coinvolgimento di un ultimo, decisivo, minuscolo soccorritore, un piccolo topo, permetterà a questa catena solidale che accomuna uomini e animali anche nemici tra loro di avere ragione della smisurata radice e farla diventare una ricchezza per tutti. Di questo racconto fiabesco diffusissimo in area slava che esalta l’aiuto reciproco e generoso, raccomandiamo la lettura ai sempre più numerosi sostenitori di un individualismo forsennato nei rapporti sociali ed economici.

Le rape arrapanti

Insomma, stiamo parlando di un cibo adatto a regolare il tono fisico complessivo, e questo spiega perché Plinio il Vecchio (23–79) nella sua Naturalis Historia e il contemporaneo Dioscoride Pedanio, (40–90) medico, botanico e farmacista greco attivo negli anni di Nerone, abbiano concordato nell’attribuire alla rapa proprietà afrodisiache, specialmente se conservata in salamoia insieme alla ruchetta, altro vegetale in fama d’essere particolarmente amica di Venere.
Per il solito Castor Durante, medico rinascimentale, le cime di rapa, mangiate lesse, oltre a favorire la minzione e a irrobustire la vista, “accrescono il coito”. Attenzione, però, a non esagerare perché

Donna nuda e rapa dura
portan l’uomo a sepoltura

e non si perda il bisenso sessuale di quella rapa dura.
La contiguità della rapa ai piaceri d’amore nasce probabilmente dalle sue radici grosse, enfiate che rimandano all’immagine del membro virile. Non sono pochi i dialetti italiani che registrano il verbo arraparsi nel senso di eccitarsi sessualmente. Una relazione confermata dal detto toscano

Pepe, noce moscata e sapa (senape)
(tre sostanze considerate afrodisiache)
fanno buona la rapa

Un Viagra d’altri tempi, senz’altro più saporoso dell’attuale pasticca blu e di sicuro con minori controindicazioni.

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